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DETTAGLIO NEWS
 
10/03/2010 23:20:52 - Il Grande Zot
 
La mitica barca di Giancarlo Toso varata nel 1984, costruita dai cantieri Zennaro di Venezia.
 

Ispirato al St. Ann, un dispatch schooner del 1736 che aveva il compito di portare velocemente ordini alla flotta e che quindi doveva essere più veloce di navi di 50 metri, lo Schooner 16 (progetto n. 93) è stato disegnato da Carlo Sciarrelli.
È la primogenita di una serie fortunata di esemplari costruiti tutti in acciaio, alberi e boma in legno. È una barca veloce perché la sua lunghezza al galleggiamento è di poco inferiore alla lunghezza fuori tutto. Notevole anche la sua stabilità di rotta grazie alla chiglia che l'accompagna per l'intera opera viva. Ha 12 posti complessivi con due cuccette a poppa; cala vele a prua trasformabile anch'essa in due cuccette; nel quadrato c'è una grande dinette con due divani e due letti a murata; a centro barca locale wc con una cabina a due letti sovrapposti; a pruavia del centro barca sono sistemate altre quattro cuccette in lue cabine separate.

 

Per quasi vent'anni il Grande Zot ha navigato ai Caraibi. Era il tempo in cui ospitava a bordo personaggi come Eric Tabarly e faceva sognare chi la vedeva attraversare i canali dalla Martinica a St Lucia, St. Vincent e le Grenadine.

Tornata in Italia, si è presa un periodo sabbatico, ma dal 2007 è rinata (grazie a un minuzioso restauro) e ora solca felice le acque del Mediterraneo con il suo armatore-skipper Saverio Sattarelli.
Fonte: Il grande zot blogspot.com
 

«UNA CROCIERA CON TABARLY...»

(di GIANCARLO TOSO)

 

Non era stato un anno gran che buono quel 1986 per il Grande Zot. Fermo all'ancora ad Anse Mitan in Martinica, attendeva noleggi. Ebbe tuttavia, inaspettato, un ospite illustre: Eric Tabarly. Incurante delle spartane dotazioni di bordo, il celebre navigatore fu sedotto dal fascino dell'imbarcazione, accolse senza esitare il mio invito a imbarcarsi e, il giorno dopo, stivate provviste e vino rosso, salpammo per le Grenadine.

 

Con lui vennero a bordo la moglie Jacqueline, le sue due figlie Anne e Marie, e due dei suoi ragazzi, marinai delle grandi imprese: Marc e Philippe. Questi due avevano partecipato qualche giorno prima al recupero del Cóte d'Or, il catamarano che Eric aveva abbandonato al largo di Brest con uno scafo in avaria. Addio Route du Rhum. Li portò in crociera con lui per ringraziamento.

 

Di fare altro che andare in barca a vela a Tabarly non pas­sava per la testa. Quando chiesi alla moglie Jacqueline cosa ne pensava di questa passione che spingeva Eric sul mare, per lavoro e anche in vacanza, mi guardò e stringendosi nelle spalle, allargò le braccia sconsolata: «Lui è così!» Era così, faceva parte della generazione di quei "garçons" che incuranti di non avere un soldo in tasca, erano tuttavia paghi di avere il ponte di una barca sotto i piedi.

 

Credo che riconobbe in me la stessa stoffa di quei "garçons". Certo, forse non avevamo più l'età, come si dice, ma la testa, le idee e la passione, così sempre orientata verso la barca e solo la barca, c'era ancora. E poi i soldi, che mancavano sempre per completarla, ma intanto si navigava. Questo era tutto. Lui lo ricordo in una vecchia diapositiva: Eric e Jean Lacombe, con vecchie cerate su vestiti di città, a bordo di piccole barche prive di draglie, candelieri e altre attrezzature di sicurezza. Uno scafo, un albero, una vela; e si traversava l'Atlantico.

 

Era rimasto fedele a questa semplicità. A bordo del Grande Zot gli piacque l'illuminazione primitiva. Leggeva in quadrato, seduto accanto alla moglie che cucinava alla luce sibilante della lampada a vapori di petrolio. La stessa atmosfera tanto odiata dagli ospiti paganti: l'acqua era scarsa, niente luce elettrica, pompe manuali, lampade a petrolio. Si cenava in quadrato o in pozzetto sempre con la luminosa presenza del lampadone portoghese che sfrigolava e sibilava e scoppiettava per chiedere altra pressione. Tutto questo insomma era ciò che, credo, Eric Tabarly apprezzò molto sulla mia barca. E soprattutto la navigazione: «Tu a un très beau et bon bateau» (hai una barca bella e buona), mi disse l'ultimo giorno, quando ci salu­tammo all'Hotel Baquà in Martinica.

 

Di poche, anzi pochissime parole, Eric era però di gradevole compagnia. Qualche breve storia la raccontò, ma mai imprese. Ricordo il suo racconto sul doganiere di Newport: quando Eric arrivò, vincitore alla sua prima Ostar, un giorno avanti gli altri, era assolutamente privo di qualsiasi documento di identità. Nella concitazione della partenza da Plymouth, non aveva portato con sé alcun documento: né passaporto, né carta d'identità, né patenti o carte di bordo. Figuriamoci poi il visto per gli Usa. Niente di niente. Il doganiere lo confinò in un angolo del porto e lo mise in quarantena. Quando il giorno dopo, gli altri con­correnti arrivarono, il doganiere diceva: «Voi sì che siete bravi, non come quel tipo laggiù con non ha niente di niente (rien de tout)! »

 

Qualche anno dopo, quando era ormai famoso, capitò ancora una volta sotto lo stesso doganiere e anche questa volta privo di documenti. Aveva una barca più grande e tutti lo conoscevano. Ma il doganiere, inflessibile, lo confinò nuovamente in quarantena.

 

Eric Tabarly sembrava più legato a questi epi­sodi di insofferenza della gente di terra, con i loro regolamenti, ordinanze, carte, etc.; tutti legami che Tabarly mal sopportava, che alle sue imprese marinare. Per lui il mare e le barche erano la vita vera e normale e quindi senza problemi. Le sue imprese, che per noi erano leggenda, non le reputava interessanti o degne di particolare nota. Amava governare le barche con la barra del timone: seduto sopravento, oltre la falca del pozzetto, senza cuscini, gover­nava con il paranchetto per ore, fa­cendo correre il Grande Zot come mai l'avevo visto fare. Credo che nessuno si offenda se dico che fu il miglior timoniere che il Grande Zot abbia avuto. Poggiava per fare correre la barca e non mandava mai le vele in turbolenza. Soprattutto di bolina. Non faceva mai una bolina stretta. Correva veloce.

 

Ricordo, parecchi anni addietro, quando regatante in classe Fireball, fui battuto e umiliato (io che credevo di essere bravo) da un timoniere svizzero, il quale, proprio di bolina, mi inflisse solenni batoste. «Ma come fai a stringere così il vento?», gli chiesi. «Vedi - mi rispose - per stringere il vento bisogna andare veloci e per an­dare veloci bisogna poggiare». Proprio così!

 

Questa regola io non l'imparai mai, ma Tabarly sì che l'applicava. E perdio, risaliva vento e ma­re con potenza e agilità e, alla fine, era sempre sopravento a tutti. Dico a tutti, perché se vedeva una vela davanti a lui, non era contento se non la raggiungeva e superava. Fosse anche il Pen Duick, come ci capitò nel canale di St. Vincent. Ai Pitons di St. Lucia arrivammo appaiati alla grande goletta nera. Calorosi i saluti di rispetto, naturalmente, tra i due equipaggi.

 

Che Tabarly fosse a bordo del Grande Zot lo sapevano tutti; la voce si era sparsa velocemente per tutte le isole. A Bequia furono molti gli skipper e marinai a rendere un saluto al grande navigatore. Eravamo ormeggiati davanti a Frangipani e i dinghy facevano corona attorno al Grande Zot. Tutti i suoi ex ragazzi che avevano navigato con lui intorno al mondo, ora skipper o marinai di barche da charter, o grandi barche private.

 

Ebbi anch'io il mio momento di gloria: mi pre­sentò a tutti e non mi lasciò mai in disparte nelle conversazioni. Fu educatissimo quando, a Marigot Bay di St. Lucia, mi vide a terra conversare con gli amici, venne pure lui a unirsi alla chiac­chierata.

 

C'erano Nini Sanna, Mario Caramel e altri che ora non ricordo. Fu cordiale con tutti, risponden­do sempre anche alle domande più banali.

 

I due ragazzi, Marc e Philippe, che portò a bordo, sembravano appartenere più alla razza dei primati che a quella umana: sempre su e giù per gli alberi e i picchi, a eseguire controlli e manutenzione. In navigazione furono controllate la testa d'albero, le manovre fisse e correnti, furono apportate delle modifiche e migliorie. Tutto que­sto senza che Tabarly chiedesse loro mai nulla. Credo che con lui a bordo simili attività fossero nella norma. Si assicuravano così l'attenzione e l'apprezzamento del loro amico skipper e con lui future navigazioni. Com'era normale sistemare all'ormeggio vele e cime, mettere tutto in ordine e chiedere sempre se c'era qualcos'altro da fare.

 

Mai Eric fece lo skipper. A bordo del Grande Zot fu semplice ed efficiente marinaio. L'ancora veniva salpata a grandi bracciate e, quando mi davano il via libera, la barca viaggiava già a due nodi. Prendere le mure e partire a vela era faci­lissimo. Inflessibile sulle precedenze, anche a rischio, come accade, di mandare in secca una barca francese che lo precedeva scorrettamente: quando lo skipper furioso si voltò per protestare, riconosciuto al timone il grande Eric Tabarly, si profuse immediatamente in untuosi saluti. Ma Eric non lo degnò di risposta, guardava a prua. Dopo la boa, il Grande Zot entrava nel vento del canale di Bequia e non c'erano né tempo né vo­glia, per dedicarsi a tardive piaggerie.

 

Sua moglie Jacqueline, molto graziosa e paziente, fu una deliziosa compagna di bordo. Correggeva il mio francese, gustava il caffè italiano della moka di bordo e, fatto straordinario, amava la pasta al dente. Queste due cose erano di mia competenza, al resto provvedeva lei, rapida ed efficiente.

 

Una notte in navigazione chiese a Eric se si poteva servire la cena con il metodo Tabarly. Era questo: si cucina in un'unica pentola un pappone onnicomprensivo, lo si lascia sul fornello basculante e tutti, a turno, scendono e mangiano, lavano piatto e cucchiaio e lo passano al marinaio seguente. Questo metodo lo si può semplificare mangiando direttamente in pentola. Ho il sospetto che in navigazione di soli uo­mini si facesse così. Non era tipo da formalizzarsi in queste cose. Non mi chiese mai perché sul Grande Zot ci fosse un solo wc. Per lui bastava e avanzava. Eravamo d'accordo tutti: meno lo si usava, meglio era. Tutto fuoribordo, senza problemi.

 

Così è stata la mia crociera con Eric Tabarly. Tranquilla, piacevole, sicura. Per loro, Eric e i ra­gazzi, la barca non era una faccenda tragica, seriosa. Era il loro gioco, con delle regole, ma sostanzialmente una cosa gioiosa. Anche se Eric una volta fece impensierire Jacqueline mettendo la piccola Anne nella sacca che la randa fa tra una brancarella e l'altra. La piccola sfuggì al controllo e a quattro zampe si allontanò lungo il boma sbracciato al lasco, e il boma del Grande Zot è lungo dieci metri! Ci volle Marc, che come Tarzan volò lungo la randa e recuperò la piccola Anne sotto gli occhi poco tranquilli della madre. Quella volta Eric si beccò un'occhiata severa di Jacqueline. Come al solito, se ne stette zitto. Per lui la barca era una cosa buona, un'amica giocosa che mai avrebbe potuto fare del male alla piccola.

 

A sua figlia no, al povero Eric, molti anni dopo un picco, stranamente in bando, fu poco comprensivo con lui. E il gioco diventò tragico. Aveva le sue manie: beveva solo vino rosso, niente birra, niente caffè, niente superalcolici, non fumava e non si assicurava mai in navigazione alla cintura di sicurezza.

 

GIANCARLO TOSO, ex skipper del Grande Zot

 

        

 
 



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